Diario di viaggio di Luca Lupi

La catena vulcanica dell’Erta Ale, ha una natura di dorsale oceanica e
si trova collocata all’interno di un ramo settentrionale della grande Rift
Valley. Questa grande frattura divide il continente africano ed attraverso un
intenso vulcanismo produce nuova crosta terrestre che porterà all’apertura di un
nuovo oceano. Quindi la caratteristica più interessante della catena vulcanica
dell’Erta Ale è rappresentata dalla sua natura di dorsale oceanica, una zona
dove la crosta terrestre si assottiglia e permette la risalita dei magmi dal
sottostante mantello. Il vulcano Erta Ale presenta inoltre altri numerosi
aspetti di rilevante interesse scientifico: la possibilità di studiare una
dorsale oceanica, i suoi movimenti, la sua evoluzione e di osservare le
manifestazioni eruttive del lago di lava (fenomeno attualmente, presente a fasi
alterne, solo in altri tre vulcani sulla terra: Kilauea alle Hawaii, Erebus in
Antartide e Niragongo in Zaire) la cui persistente attività testimonia
l’intensità del fenomeno della risalita dei magmi dal sottostante mantello. Il
fatto che la dorsale sia emersa, e quindi direttamente osservabile dai
vulcanologi, rende questo sistema vulcanico eccezionale nell’intero panorama del
vulcanismo terrestre. Però per la collocazione estrema del vulcano le uniche
osservazioni relative alle eruzioni precedenti al 1967, consistevano in poche
relazioni non sempre affidabili. Ecco allora che negli anni settanta si
organizzarono ben sei spedizioni scientifiche italo-francesi, che avrebbero
conquistato alla conoscenza una zona rimasta fino ad allora inesplorata.

Non è semplice arrivare all’Erta Ale, sia per la sua collocazione estrema
nella Piana del Sale all’interno della Dancalia, regione al confine tra Etiopia
ed Eritrea, sia per le difficili condizioni ambientali con temperature che
superano i 50 gradi e pochissima acqua disponibile, sia perché il territorio non
è controllato dal governo centrale di Addis Abeba ma è di fatto controllato
dalle popolazioni guerriere Afar. Inoltre gli operatori turistici non si
avventurano oltre il lago Afrera, per ovvi motivi di sicurezza. Per arrivare
quindi all’Erta Ale occorre organizzare una vera e propria spedizione, se
possibile con l’utilizzo di elicotteri, senza lasciare nulla al caso, ottenendo
le autorizzazioni richieste e sincerandosi delle condizioni di sicurezza
derivanti dall’instabilità politica della zona. Solo poche spedizioni
scientifiche ed esplorative italiane e francesi, sono riuscite, fino ad oggi ad
arrivare sul vulcano. Attualmente, sono riprese le ostilità tra i due paesi
confinanti (Etiopia ed Eritrea) ed al momento della stesura del libro sono
sfociate nuovamente in guerra aperta, compromettendo ulteriormente la sicurezza
di tutta la zona.

l’avventura dancala

<< La Dancalia non è uno scherzo, non è un normale viaggio. E’
un’autentica spedizione, in uno dei deserti più impervi e inospitali della
terra, con temperature regolarmente oltre i 40° e picchi che superano i
50°>>. Così incomincia il capitolo sulla Dancalia della recentissima (’94)
guida Clup sull’Eritrea, unica valida alternativa all’eccezionale “Guida
all’Africa Orientale Italiana” pubblicata nel 1938 dalla Consociazione Turistica
Italiana. Tutto questo, non per spaventare, ma per affermare che la
“Dancalia” è una spedizione che deve essere preparata con cura e senza
imprudenze
, dato che, senza dubbio, è uno dei posti più affascinanti ma più
proibitivi del pianeta. L’idea della spedizione in Dancalia sul fantomatico Erta
Ale, dopo aver conquistato due altri “irraggiungibili” e ambitissimi vulcani
della Rift Valley, quale il Nyiragongo in Zaire e l’Oldoinyo Lengai in Tanzania,
vagheggiava ormai da anni nella mia mente e in quella dei vulcanologi che
collaborano con la Vulcano Esplorazioni.

Quest’idea incominciò a concretizzarsi seriamente durante un incontro che
ebbi a Milano, in occasione della Borsa del Turismo Internazionale (BIT) nel
febbraio del 1996. Mi aggiravo nel padiglione dell’Africa tra gli stands
dell’Eritrea e dell’Etiopia in cerca di materiale e notizie sul vulcano Erta
Ale. Visto il mio interesse particolare per quel vulcano, un addetto dello stand
dell’Etiopia mi fece parlare con un operatore turistico di Addis Abeba, Thomas
Mattanovich, un polacco ormai residente da moltissimi anni nel paese africano.
Cominciai a tempestarlo di domande sulla possibilità di arrivare ai laghi di
lava del grande vulcano Erta Ale e sulla fattibilità di organizzare una
spedizione in quella zona così remota. Thomas cominciò a rispondermi con molta
calma elencandomi le innumerevoli difficoltà a cui saremmo andati incontro nel
realizzare una spedizione del genere, dicendomi anche che nessun operatore
locale, per vari validissimi motivi di sicurezza, avrebbe rischiato i propri
fuoristrada per avventurarsi in quell’area. Non sarebbe stato per niente
semplice arrivare all’Erta Ale! Innanzi tutto è collocato in una posizione
veramente estrema
, nella Piana del Sale all’interno della Dancalia, regione
al confine tra Etiopia ed Eritrea, con piste percorribili in fuoristrada che
arrivano con una certa difficoltà fino ad Asayta, capitale amministrativa della
regione autonoma della Dancalia, da dove poi occorre raggiungere il lago Afrera
e percorrere altri 60 km cercando di aprirsi una via tra le colate laviche e il
deserto. Inoltre sono da considerare attentamente le difficilissime
condizioni ambientali
con temperature che superano i 50 gradi e pochissima
acqua disponibile. Infine, forse la condizione più importante,che il territorio
non è controllato dal governo centrale di Addis Abeba ma è, di fatto,
controllato dalle popolazioni guerriere Afar.

Vista la mia grande determinazione nel voler cercare una via per organizzare
la spedizione, Thomas pensò bene di presentarmi una persona, anch’essa
interessata,per differenti motivi,alla zona del vulcano e alla Dancalia, per
vedere se era possibile,unendo le forze, realizzare una spedizione nell’area.
Claudio Pozzati, dell’associazione Argonauti Explorer’s di Milano, era
già stato l’anno precedente nell’area in questione, dove fu uno dei protagonisti
di un singolarissimo episodio che scatenò una gran polemica sulle televisioni e
i giornali di tutta Italia. Mi spostai con Claudio, in un angolo appartato dello
stand; qua parlammo per un paio di ore della Dancalia e della sua precedente
spedizione. Nel marzo del 1995 Claudio con il suo gruppo di argonauti voleva
ripercorrere il tragitto dell’esploratore anglo-fiorentino (1928),
Ludovico Maria Nesbitt
, attraversando la Dancalia verticalmente da sud a
nord, da Asayta-Serdo fino a Dallol. Impossibilitati a proseguire dal versante
etiopico, a causa di varie difficoltà a reperire guide e cammelli, decisero di
tentare il percorso inverso scendendo dall’Eritrea verso sud. Sfortunatamente,
l’itinerario si concluse, a metà percorso, con il sequestro di tutto il gruppo,
per 23 giorni, da parte di un movimento armato Afar (movimento rivoluzionario di
liberazione del popolo Afar – ARDUF) che rivendica l’autonomia della regione
Afar dall’Etiopia. Mano a mano che il racconto di Claudio mi rendeva chiaro il
“vero” svolgimento dei fatti relativi a quel tanto discusso episodio, mi
appassionavo sempre di più all’idea di raggiungere quel vulcano, nonostante gli
innumerevoli pericoli ai quali poteva andare incontro una spedizione in
quell’area. Al termine del racconto, incominciammo a ragionare sulla possibilità
di organizzare una nuova spedizione nell’area, cercando un punto di contatto tra
gli interessi dei vulcanologi e quelli degli argonauti. In molti successivi
incontri tra Pisa e Milano, concepimmo così il progetto “Rift Valley
2000”
, il cui punto fondamentale era il rapporto vulcano\uomo. Si trattava
di un progetto di spedizioni scientifiche, culturali e umanitarie nella grande
Rift Valley africana (regione di immani sconvolgimenti geologici e ambientali e
proprio per questo, luogo d’origine del processo di ominazione), esplorando e
studiando le popolazioni e i vulcani attivi dell’area. Le nostre spedizioni in
Tanzania, sul vulcano Oldoinyo Lengai, situato nel territorio del popolo Maasai,
rientrarono a pieno titolo nel progetto. Dopo due anni d’incontri, con
valutazioni dei costi, delle difficoltà logistiche, documentazione e ricerca
storiche e scientifiche, contatti con sponsors, giornali, etc.., riuscimmo a
fissare una data di partenza e a selezionare un gruppo di partecipanti. Il
“corpo di spedizione” alla partenza dall’Italia era di sedici
partecipanti ed era così composto:

1. Luca Lupi (Vulcano Esplorazioni S.r.l
- Pisa) capo-spedizione
2. Claudio Pozzati (Argonauti Explorers – Milano)
capo-spedizione
3. Prof. Mauro Rosi (Docente Università di Pisa)
Vulcanologo http://www.dst.unipi.it/ute_det.php?id=87
4. Dott. Paolo Papale (Ricercatore ING – C.N.R. di Pisa)
Vulcanologo http://www.pi.ingv.it/Pagine_personali/papale.html
5. Dott. Mauro Coltelli) (Ricercatore IIV – C.N.R. di Catania)
Vulcanologo
6. Dott. Luigi Vigliotti (Ricercatore – C.N.R. di Bologna)
Geologo marino
7. Dott. Paolo Pieroni (Guida alpina della Valle D’Aosta)
Responsabile problematiche alpinistiche http://www.paolopieroni.it/
8. Dott. Luciano Fiore (Medico,
urologo) Medico della spedizione
9. Dott. Maurizio Leigheb (Antropologo e
documentarista) Regista documentario http://www.maurizioleigheb.com/
10. Andrea Turri (Cineoperatore
professionista) Operatore televisivo http://andreaturri.com/
11. Michele Squeri (Fotografo
professionista) Partecipante
12. Nello Pozzati (Dirigente Pubb. Amm.ne)
Partecipante
13. Odina Grosso (Commerciante) Partecipante
14. Mario Luisetti (Commerciante) Partecipante
15. Sandro Bernes (Rappresentante)Partecipante
16. Giorgio Cingolani (Studente ) Partecipante  http://www.giorgiocingolani.com/

Questo era il nostro gruppo destinato, come vedremo poi, a crescere molto con
l’aggiunta di autisti, cuoco, guide, scorta armata. Oltre ai bagagli personali
avevamo al seguito una gran quantità di casse varie contenenti materiale
alpinistico, pannelli solari e batterie, materiali vari, tende, alimentari,
medicinali, computer portatile, telefono satellitare, strumentazioni
scientifiche varie etc. per un ammontare di diverse centinaia di chili.

Il venerdì 21 Novembre, partimmo alla volta dell’Etiopia, carichi di speranze
e di entusiasmo, ma gli entusiasmi si spensero subito all’arrivo all’aeroporto
di Addis Abeba. Il controllo dei passaporti e lo sdoganamento di tutta la nostra
attrezzatura, si svolse abbastanza velocemente, anche se con un po’ di
apprensione da parte nostra per paura che i controlli scoprissero il telefono
satellitare (nascosto tra le montagne di casse) e con qualche scusa lo
bloccassero in dogana. Infatti, nonostante avessimo ottenuto tutti i permessi
dall’ambasciatore etiopico a Roma, per avventurarci in una zona di frontiera
come il territorio Afar soggetta a fortissime tensioni con l’Eritrea e ad
ambizioni separatistiche della popolazione locale, non eravamo completamente
sicuri che ci avrebbero fatto passare il telefono che rappresentava l’unico modo
di comunicare con l’Italia, con l’ambasciata, e in caso di bisogno, per dare
informazioni sull’andamento della spedizione. Ma il vero problema si rivelò la
telecamera del nostro operatore, bloccata in dogana finché non avessimo ottenuto
il rilascio dell’autorizzazione del ministero dell’informazione etiopico. Thomas
Mattanovich, venutoci incontro all’aeroporto, si attivò subito per ottenere
queste autorizzazioni che ci sarebbero state concesse tre giorni dopo. Questi
tre giorni di attesa furono spesi per reperire sul posto il vettovagliamento e
alcuni materiali da campo per la spedizione, ma soprattutto per far fronte ad un
altro grosso problema.

La pianificazione del nostro itinerario prevedeva di arrivare in fuoristrada
fino al Lago Afrera, da dove saremmo partiti per raggiungere a piedi la base del
vulcano con cammelli e guide Afar; contemporaneamente un grande
elicottero da carico (vecchi elicotteri militari sovietici) partendo da
Addis Abeba con il grosso del materiale da campo ci avrebbe raggiunto al campo
base, per prelevarci e depositarci poi all’interno della caldera del vulcano.
Non sapevamo se fosse stato possibile arrivare a piedi fino alla caldera
dell’Erta Ale: i vulcanologi delle spedizioni scientifiche italo-francesi degli
anni settanta che avevano raggiunto il vulcano sempre in elicottero non avevano
saputo darci indicazioni e non esistevano nemmeno fonti certe che parlassero di
questa possibilità. Anche i francesi delle più recenti spedizioni avevano
raggiunto il vulcano sempre ed esclusivamente in elicottero.

Sfortunatamente gli unici tre grandi elicotteri da carico del paese, erano
stati requisiti dal governo etiope e utilizzati per i soccorsi alle popolazioni
di alcune aree duramente colpite dalle alluvioni causate da eccezionali piogge,
e per lo spostamento di truppe mobilitate a causa di gravi tensioni politiche ai
confini col Sudan. Questo grosso inconveniente sembrava mandare a monte tutti i
nostri piani originari e compromettere pesantemente la riuscita e il successo
della spedizione: occorreva trovare velocemente una soluzione! I nostri sforzi
si orientarono nel cercare di reperire un elicottero privato,e tenendo anche
conto del fatto che proprio in quei giorni i rapporti con il nostro paese
stavano migliorando sperammo anche in un aiuto dell’ambasciata italiana: infatti
Domenica 23 Novembre il presidente Scalfaro sarebbe stato in visita ufficiale
nella capitale etiope, per onorare l’accordo di restituzione all’Etiopia della
Stele di Axun. Dal nostro albergo ad Addis Abeba con il telefono satellitare,
contattammo un gran numero di persone in Italia ed in Africa Orientale: piloti
privati, missioni religiose varie, compagnie petrolifere, compagnie aeree di
Gibuti e di Nairobi. Purtroppo, non ottenemmo l’aiuto sperato dall’ambasciata
italiana perché mobilitata in blocco per l’evento diplomatico e anche tramite
gli altri canali non fu possibile reperire elicotteri privati in Etiopia;
inoltre i costi per far pervenire degli elicotteri da Gibuti e da Nairobi si
rivelarono proibitivi per il budget a nostra disposizione.

………… È bene evitare, quando possibile, di essere colti di sorpresa dagli
avvenimenti, perché nel rischio e nell’emergenza, è avvantaggiato chi ha già una
possibile soluzione. Ma è anche altrettanto vero che, se la programmazione è
troppo rigida, in caso di grossi ostacoli può capitare di essere bloccati o
vinti nel vano tentativo di rimanere fedeli ad uno schema ormai irrealizzabile.
Il successo di una spedizione sta quindi anche nell’inventiva, nella facilità di
cambiare i programmi, nell’elasticità mentale con la quale si affrontano le
difficoltà. Nonostante la nostra programmazione fosse stata molto accurata nella
fase preparatoria, occorreva cambiare i programmi e trovare nuove
soluzioni a queste improvvise difficoltà.

Pensammo che l’unica alternativa che ci rimaneva era quella di
avvicinarci il più possibile in fuoristrada all’area vulcanica, reperire sul
posto guide e molti cammelli per trasportare la maggior parte del nostro
materiale alla base del vulcano, per poi provare ad attaccare la montagna a
piedi, pur non conoscendo le reali possibilità di salita. Esisteva quindi la
possibilità che ostacoli naturali c’impedissero di raggiungere il bordo
craterico e l’incertezza delle condizioni di salita alimentava le
discussioni all’interno del gruppo dei vulcanologi e di tutti i partecipanti
alla spedizione.

Dopo aver analizzato a lungo le molteplici difficoltà che avremmo dovuto
affrontare e dopo aver trovato un accordo con Thomas, l’operatore etiope,
trovammo l’accordo e cominciammo a preparare i fuoristrada caricandoli con il
nostro materiale: i nostri bagagli, le numerose casse con i vari materiali
scientifici e alpinistici, le tende, le derrate alimentari varie, e altro
materiale acquistato al mercato generale di Addis Abeba. Infatti, durante i
giorni di permanenza nella capitale, una parte del gruppo si era occupata di
acquistare il materiale che non avevamo portato dall’Italia: oltre ottanta
taniche di plastica riempite di acqua, cibi vari e soprattutto una grandissima
quantità di frutta e verdura. Con rinnovato entusiasmo finalmente partiva la
nostra spedizione alla volta della depressione del deserto dancalo. La carovana
era composta dai 16 della spedizione, 7 autisti, un interprete, e due cuochi,
in totale 26 persone, e questo era solo l’inizio. Partendo da Addis Abeba
puntammo da prima a sud per raggiungere dopo un centinaio di chilometri il paese
di Nazret da dove poi imbocchammo con una deviazione la Assab Road, cioè
la grande strada che costeggia il fiume Awash fino alla regione Afar che collega
l’Etiopia con il vitale sbocco al mare del porto di Assab attualmente territorio
eritreo.

Percorremmo senza difficoltà la strada per vasti tratti asfaltata,
attraversando per alcuni giorni, un territorio che il clima e la natura
vulcanica hanno reso ostile, incontrando molte carcasse di camion abbandonate
sulla strada ed anche alcuni carri armati militari abbandonati, muti testimoni
delle frequenti guerre di frontiera. Tutto ciò sembrava rendere surreale il
paesaggio, come se il tempo si fosse fermato, e gli scenari visti fossero
immagini di chissà quanti anni fa. Proprio in questo tratto incominciammo a
girare, con il nostro regista Maurizio Leigheb e il suo operatore Andrea Turri
alcune parti del documentario relativo alla spedizione, soffermandoci quando, ad
un tratto, il nostro cammino fu bloccato parzialmente da un’autocisterna in
fiamme, senza scorgere anima viva nel raggio di centinaia di chilometri.
Probabilmente, per qualche ragione l’automezzo aveva preso fuoco ed era stato
abbandonato al suo destino. Decidemmo di documentare lo strano incontro, girando
alcuni spezzoni di film; poi oltrepassando la carcassa in fiamme ci dirigemmo a
nord, verso Asayta. Arrivati alla località di Awash effettuammo la prima
sosta per rifornirci di carburante e per fare le prime telefonate con il
telefono satellitare. In quest’area cominciammo ad avere i primi contatti con le
popolazioni del posto, gli Issa, popolazione che vive nella Dancalia del sud. In
questi giorni avemmo il nostro primo incontro con gli Afar. Attraversando un
paese, Mille, incontrammo un gruppo di Afar armati che procedeva a piedi
trasportando a spalla un altro Afar ferito o forse ammalato. Le raccomandazioni,
ad ognuno dei partecipanti sull’atteggiamento prudente da tenere durante questi
casuali incontri, vennero rispettate alla lettera; nessuno scese di macchina per
fotografare il gruppetto di Afar. Il loro sguardo penetrante, il loro portamento
e atteggiamento fiero, le loro armi, incutevano in ognuno di noi timore e
rispetto, ed incominciavano a farci capire con quale tipo di popolo avremmo
avuto a che fare per buona parte della spedizione.

La sensazione di insicurezza andò crescendo mano a mano che ci si
avvicinava alla “Dancalia vera”; infatti su “convincente invito” del capo della
polizia locale, passammo la notte in un centro di telecomunicazioni
dell’esercito etiope, all’interno di mura che proteggevano una enorme antenna:
al tramonto montammo le nostre tende, guardati con sorpresa dai soldati che
presidiavano il centro e così passammo la notte. Raggiungemmo poi Asayta,
la capitale amministrativa della regione Afar, posizionata qualche decina di
metri in alto sulla riva del fiume Awash, dove fu necessario richiedere i
permessi per addentrarci nella regione. Arrivati nella piazza principale
attirammo l’attenzione di un gran numero di persone incuriosite dalla gran
carovana di macchine e dai nuovi arrivati. Il caratteristico minareto della
vecchia moschea è una chiara testimonianza dell’influenza che gli arabi hanno
avuto sulla cultura di questo popolo. Ottenere il permesso si rivelò più
difficile del previsto. Ci rendevamo conto sempre di più come ottenere un
“permesso” in questo paese sia l’imperativo in bocca di ogni funzionario più o
meno zelante. Per ogni cosa in questo paese occorre un permesso, e se a
questo aggiungiamo la concezione del tempo dei popoli africani la cui
cultura considera la fretta come la più estranea delle necessità, si capisce
come si debbano cambiare programmi e percorsi. A dire il vero il sospetto che
tutte queste difficoltà fossero insorte per trattenerci nella cittadina e
contribuire in modo sostanzioso alla magrissima economia dei gestori dei due
localetti che vendono bevande, ci rimbombava spesso in testa. Ma non c’era
niente da fare, dovevamo attendere che il governatore ci assegnasse una guida
autorizzata che doveva arrivare appositamente per noi. A questo punto
dell’itinerario ci trovavamo a quasi 600 chilometri da Addis Abeba e il clima di
insicurezza di queste zone di frontiera aumentava sempre più; infatti ancora una
volta venimmo presi in carico dal capo della polizia locale e trasferiti in una
struttura in muratura del comune di Asayta, poco lontano dalla cittadina, dove
sorvegliati e “protetti dalla polizia locale” passammo la notte.

Un altro inconveniente era per noi fonte di preoccupazione: un componente del
gruppo, il vulcanologo Mauro Rosi non era in buone condizioni fisiche; a
causa di una forte febbre si era disidratato molto e indebolito. Occorreva
quindi curarlo nella maniera migliore e velocemente altrimenti le sue condizioni
di salute avrebbero alquanto ostacolato il movimento dell’intero gruppo. Il
nostro bravo medico della spedizione, Luciano Fiore, fece del suo meglio e nei
giorni successivi Mauro riprese buona parte delle sue forze.

Nella giornata successiva, passammo diverse ore a bere bevande quasi fresche
all’ombra delle due baracche e girottolare per le strade polverose di Asayta. Il
tempo scorreva lentamente e molti di noi ne approfittarono per vedere il piccolo
paese e curiosare tra le viuzze che si diramavano dalla strada principale. Una
di queste piccole strade, dopo un breve tratto in discesa, terminava a
strapiombo sulle rive del fiume Awash. Questa terrazza naturale, che i locali
utilizzano come discarica a cielo aperto e dove numerosi falchi e marabù
banchettavano, ci permetteva, nonostante il gran fetore, di ammirare un grande
spettacolo: la vallata, verde e fertile che si estendeva sotto la ripida parete
era interrotta dai dolci meandri disegnati dall’Awash; qualche misera capanna,
pochi armenti, e numerosi uccelli sulle sponde del fiume sulle alcune sparute
palme, disegnavano un paesaggio che contrastava nettamente con i paesaggi
desertici incontrati fino allora per raggiungere Asayta, un paesaggio
dall’aspetto biblico che ricordava vagamente il corso del Nilo. La forza vitale
dell’acqua era evidente; quando essa infatti è presente in una regione
desertica, cambia radicalmente l’aspetto di tutto ciò che si trova intorno al
suo corso.

Finalmente la nostra guida Afar ci fu assegnata: Alì, che avrebbe
dovuto portarci alla metà sorvegliando sulla nostra incolumità, essendo un capo
Afar nativo dell’area dell’Erta Ale, costituiva per noi un’ottima garanzia per
l’attraversamento dell’area vulcanica. Questo concetto della sua totale
responsabilità nei confronti del gruppo ci creò, come poi vedremo, non pochi
problemi
. Ripresa la marcia facemmo una deviazione, ad est per fare
un’interessante ricognizione nella zona del Lago Abe ai confini con Gibuti.
Successivamente muovemmo in direzione nord e oltrepassando Serdo,
l’ultimo centro abitato, ci dirigemmo verso la pista che conduce al Lago Afrera.
Ci separavano ben 170 km di piste sterrate in fase di realizzazione da parte di
un’impresa etiopica dal nome vagamente italiano. Nella prima parte del percorso
trovammo un ampia area desertica sabbiosa, molto dura come ben testimoniavano
alcune carcasse di animali morti, che ha tratti presentava grandi dune di
sabbia. Successivamente incontrammo una grande mandria composta da qualche
centinaio di cammelli con un gruppo di Afar al seguito. Vedere questo gruppo di
animali nel suo ambiente naturale fu un gran bello spettacolo. Decidemmo di
fermarci a scattare qualche foto e girare alcune riprese. Riuscimmo così a
raggiungere la mandria di cammelli che si abbeverava ad una pozza e
grazie ad Alì potemmo camminare all’interno di essa facendo conoscenza anche con
il gruppo Afar. Vedere tutti questi animali all’abbeverata serale valeva proprio
uno stop.

Al tramonto, a circa metà tragitto, raggiungemmo il campo base
dell’impresa Berta
; il direttore fu felice di ospitarci dato che gli ultimi
visitatori avevano sostato al campo ben tre anni prima: questi visitatori erano
stati proprio quelli del gruppo di Claudio con i suoi argonauti, durante la loro
prima sfortunata spedizione in Dancalia. Questo stop ci voleva proprio! Potemmo
accamparci con tutta una serie di facilitazioni: avevamo acqua per lavarci,
anche se razionata, un bar fornito di bibite fresche, e corrente elettrica per
ricaricare le varie apparecchiature. Ci accampammo sotto la veranda di una
grande struttura che fungeva da bar, e passammo la notte protetti all’interno
del campo dell’impresa. In realtà l’idea di essere protetti non poteva essere
più sbagliata: qualche mese prima il campo, proprio perché ricco di materiali e
viveri, aveva subito un attacco da parte di un gruppo Afar e c’erano stati anche
alcuni morti. Il mattino seguente riprendemmo il viaggio, e dopo molte ore di
scossoni tremendi, giungemmo al tramonto su un altipiano in prossimità del lago
Afrera. Su questo altipiano troviamo un altro “punto di appoggio sicuro” non
previsto: trovammo infatti un avamposto dell’esercito etiopico che in posizione
strategica dominava la sottostante vallata del lago e questo noi lo
interpretammo come una chiara volontà da parte del governo centrale di
esercitare un controllo militare sul territorio. Alì volle farci accampare,
proprio sull’altipiano perché sosteneva che era più sicuro e così facemmo. Il
forte vento serale ci riempiva in continuazione le tende di sabbia; in questo
altipiano passammo una delle peggiori notti dell’intero viaggio. Al mattino
scendemmo la scarpata per raggiungere il lago che è riportato sulle nostre carte
con un duplice nome: Afrera in lingua Afar e Giulietti dal nome
dell’esploratore italiano della sfortunata spedizione Giulietti\Billeri del
1881. Decidemmo di fermarci un giorno sulle rive del lago per compiere varie
ricognizioni della zona. Sulle rive del lago, circondate da gruppi di verdi
palme, trovammo alcune sorgenti d’acqua calda, limpidissima e dolce che
ci permise di lavarci e rinfrescarci abbondantemente. Oltrepassando le sorgenti
assistemmo ad uno spettacolo inconsueto: le rive del lago bordate da un
“muro” di densa schiuma bianca dovuta all’eccezionale concentrazione
salina che rende il paesaggio molto suggestivo.

Effettuate numerose foto ricordo e riprese documentaristiche del bizzarro
fenomeno, ci dedicammo alle nostre ricognizioni. Inizialmente tutto il gruppo si
diresse in fuoristrada alle “Pozze di Labedin” situate a qualche
chilometro di distanza. Queste due pozze (descritte accuratamente sul libro di
Raimondo Franchetti, “Nella Dancalia Etiopica”, che esplorò l’area
nel 1929) sono ricche di acqua dolce e fresca nella quale vivono alcune specie
di pesciolini. Nel pomeriggio alcuni partecipanti aiutarono Claudio a cercare
nelle sorgenti vicine alle rive del lago uno strano pesce, fotografato
nella spedizione del 1995, probabilmente appartenente ad una specie sconosciuta,
con l’intento di catturarlo e portarlo in Italia. L’altro gruppo, composto dai
vulcanologi e dal geologo marino Luigi Vigliotti, (che aveva partecipato alla
spedizione, per raggiungere quest’area molto interessante per i suoi studi e
prelevare dei campioni) si dedicava alla campionatura dei depositi
lacustri
.

Nell’effettuare queste campionature ci allontanammo di alcuni chilometri
dalle rive del lago rimanendo spesso bloccati dalle insidiose sabbie del deserto
che circondano l’area. La giornata, tutto sommato, trascorse in modo positivo
per la spedizione e per ognuno di noi, presi come eravamo dai nostri interessi.
La sera, dopo aver cenato c’infilammo nelle nostre tende. Purtroppo, come ben
sapevamo, l’area del lago era letteralmente insidiata dalle zanzare portatrici
di malaria, e nonostante tutte le precauzioni, molti di noi si svegliarono al
mattino con centinaia di punture. Lasciammo l’area del lago per intraprendere
la parte più dura del viaggio ma anche più avventurosa della spedizione.

In quei giorni, avevamo avuto modo di conoscere un po’ meglio la nostra guida
Afar. Grazie al nostro interprete, Taie che parlava abbastanza bene l’italiano,
riuscivamo ad parlare con Alì delle nostre intenzioni e del progetto di scalare
l’Erta Ale. Alì però non si mostrava affatto entusiasta, anzi sollevava in
continuazione dubbi sulla possibilità di realizzare la scalata del vulcano e
trovava continui ostacoli, parlando di pericoli e facendo sempre leva sulla
difficoltà di ottenere altri permessi ad Asayta e sul fatto che lui era l’unico
responsabile della nostra incolumità. Questo atteggiamento, che Alì mascherava
sotto un atteggiamento di prudenza e buon senso, irritava moltissimo tutti
quanti, e molti di noi stentavano a controllarsi. Il clima di tensione,
già esasperato dai numerosi contrattempi e imprevisti che fino ad allora avevano
colpito pesantemente la spedizione, cresceva pericolosamente e tutti quanti ci
rendevamo conto che non sarebbe stato per niente facile raggiungere l’Erta Ale,
ammesso che fosse possibile raggiungerlo a piedi, se Alì non avesso voluto
aiutarci. Di fatto, eravamo in casa sua, in un territorio molto pericoloso, e
lui faceva tutto per ricordarcelo vincolandoci quasi totalmente alle sue
decisioni.

Partiti dal lago, per raggiungere il massiccio vulcanico dell’Erta Ale
(distante circa 60 km in linea d’aria), era necessario percorrere piste poco
conosciute che si sviluppavano nel deserto sabbioso a ridosso delle colate dei
massicci vulcanici. L’intenzione di Alì era quella di condurci, attraversando un
passaggio sulle lave che congiungevano i massicci vulcanici dell’Erta Ale a nord
e quello dell’Alaita a sud, su delle vecchie piste che costeggiavano sul fianco
occidentale il massiccio del nostro vulcano per arrivare al suo villaggio,
Kosrawad. Qua avremmo potuto reperire cammelli e uomini e organizzarci
per raggiungere il vulcano.

Quello che doveva essere un varco possibile fra le colate laviche, si
presentava in pieno deserto dancalo come una enorme distesa d’acqua, che si
estendeva per alcuni chilometri bloccando l’unico passaggio conosciuto. La
grandissima quantità di acqua che in maniera inusuale si era rovesciata in
quella stagione sugli altipiani aveva causato gravi inondazioni in tutta quella
parte di Africa Orientale. La nostra guida Afar asseriva che quella era l’unica
strada possibile e che avremmo dovuto tentare di attraversare
l’allagamento; gli autisti però si rifiutarono di proseguire, perché non
volevano rischiare le auto; si accese allora una accanita discussione con
Belete, il capo degli autisti, che metteva in forse la capacità di guidarci di
Alì. Quest’altro improvviso grosso imprevisto alimentava nuove tensioni.
Occorreva verificare la solidità del fondo del lago: Claudio e altri provarono
ad camminare nell’acqua per alcune centinaia di metri ma l’enorme allagamento
era un vero e proprio lago insidioso profondo 40 cm impercorribile con le
fuoristrada. In questa difficile situazione ci fu nuovamente molto utile il
nostro telefono satellitare. Poichè era impossibile attraversare lo sbarramento
d’acqua, dopo una serie di triangolazioni telefoniche tra il sottoscritto, Alì,
Belate, e Thomas decidemmo di cercare un percorso alternativo sulle lave
taglienti aggirando l’ostacolo dell’allagamento. Riuscimmo a convincere anche
Alì che con l’aiuto di un giovane Afar, comparso chissà da dove, cominciò a
guidarci tra gli ammassi caotici di lave alternate a tratti da brevi banchi di
sabbia. Nessuno di noi all’inizio credeva che che una carovana di sette
fuoristrada stracarichi di materiale e persone, avrebbe potuto attraversare
quelle colate di lava. Sotto il sole, con la temperatura che oltrepassava i 50
gradi, tutti quanti a turno ci alternavamo a indicare metro per metro ai nostri
bravi autisti, i passaggi tra le lave. Questi passaggi si rivelarono molto
difficili e il rischio di forare i pneumatici era altissimo. Fu un’attraversata
massacrante, sia per i mezzi che per gli uomini. Per attraversare le lave del
massiccio vulcanico dell’Alayta occorse tutta la giornata e a prezzo di immani
sforzi, riuscimmo al tramonto a portare tutte le auto fuori dal labirinto di
lava, giungendo ad una vasta pianura.

La notte si avvicinava velocemente ma il villaggio di Alì, Kosrawad, era
situato in questa pianura, qualche chilometro più avanti, proprio alle falde
dell’Erta Ale. Da queste parti l’imprevisto è sempre in agguato: infatti il
“fattore Africa” ci colpì ancora duramente proprio nel momento della
nostra massima stanchezza. Infatti, per raggiungere velocemente il villaggio
occorreva attraversare il corso asciutto di un torrente stagionale che tagliava
in due la pianura. Alì era ansioso di arrivare al suo villaggio, e secondo lui
avremmo guadagnato molto tempo tagliando per quella scorciatoia. Ancora una
volta i nostri autisti, molto esperti, intravedevano un rischio, ma ormai
eravamo tutti stravolti dalla fatica, e alcuni di essi si fecero convincere a
tentare la traversata. Sotto la patina di sabbia asciutta il fondo del torrente
si dimostrò una trappola di fango nella quale a notte inoltrata rimasero
intrappolate ben tre delle nostre fuoristrada. Ci eravamo cacciati proprio in un
bel guaio: infatti lo Uadi (termine arabo che indica i corsi di
acqua in ambiente desertico, a deflussi saltuari ed effimeri) cioè il letto del
fiume dove ci eravamo impantanati, poteva riempirsi di acqua da un momento
all’altro se fosse piovuto sull’altipiano e le piogge avessero raggiunto
velocemente la piana desertica, spazzando via le nostre tre auto cariche di
materiali vari. Sarebbe stata una tragedia che avrebbe compromesso non solo la
riuscita della spedizione ma anche la sicurezza dell’intero gruppo. Non potevamo
assolutamente permettercelo. Occorreva recuperare, chissà come, le nostre ultime
forze per fare fronte a una situazione che poteva rivelarsi tragica. Scaricammo,
dal tramonto, per diverse ore tutte e tre le auto per alleggerirle di peso, e
con Paolo Pieroni, la nostra esperta guida alpina, riuscimmo ormai a buoio, con
le corde da alpinismo, a coordinare le forze di decine di persone, e a
trascinare le auto letteralmente di peso fuori dal fango. La forza della
disperazione, l’inventiva di alcuni di noi ed un valido aiuto degli Afar accorsi
dal villaggio ci permisero di salvare, a prezzo di grandi fatiche, i nostri
fuoristrada. A notte fonda, pur essendo molto vicini al villaggio, avevamo le
macchine divise sulle due sponde dello uadi e non ci restava che accamparci
sulle sue rive.

Al mattino, gli equipaggi dei due gruppi viaggiarono separarti per alcuni
chilometri, sugli opposti margini dello uadi tenendosi in contatto con le
ricetrasmittenti portate dall’Italia. Ricongiunti, finalmente tutti quanti
raggiungemmo Kosrawad, un piccolo villaggio Afar semistanziale, costituito da
poche piccole “burra”, tipiche capanne costruite con stuoie di
palma dum sopra una leggera intelaiatura in legno). Questo piccolo villaggio,
situato proprio sotto al vulcano, sarebbe stato il nostro punto di partenza per
raggiungere la vetta dell’Erta Ale. Occorreva trattare con i “locali”, per
ottenere cammelli, guide e una scorta adeguata. Raggiunto il suo villaggio, e
probabilmente perché nel pieno del territorio controllato dal suo gruppo, Alì
cambiava atteggiamento e si dimostrava più ragionevole adoperandosi con me e
Claudio nelle trattative con i capi villaggio. il resto del gruppo, nel
frattempo, familiarizzava con la popolazione, soprattutto con i bambini che
mostravano la maggiore curiosità verso i nuovi arrivati.

Arrivati nel momento più caldo della giornata, ci trovavamo completamente
allo scoperto, senza una minima parvenza d’ombra, senza un anfratto tra le rocce
che potesse permetterci di ripararci dal sole infuocato, ricordando a tutti
quanti che che eravamo nel bel mezzo di uno dei deserti più duri e ostili del
mondo
, con temperature che oltrepassano abitualmente i 50°C.
L’esploratore L.M. Nesbitt nei suoi appunti di viaggio della
spedizione in Dancalia del 1928 riportava:

<< … in quella luce abbagliante sulle bianche rocce incandescenti a
75 gradi. Nella nostra cavità si era a oltre 60 gradi ed il riverbero era
atroce. Questa era davvero la “fossa africana”! Plaga tra le più sprofondate
sulla crosta terrestre, assai sotto il livello del mare e che raggiunge
temperature forse ineguagliate altrove sul globo.>>

La permanenza in queste aree aveva fatto ben capire l’importanza, per la
nostra sopravvivenza, delle quantità di acqua adeguate al fabbisogno in base
alle nostre attività. Infatti appena arrivati al villaggio, per razionalizzare
equamente l’acqua disponibile, avevamo proceduto a scrivere con i pennarelli
i nomi sulle taniche di acqua potabile
assegnate ad ognuno dei partecipanti.

Montammo subito due teloni di plastica tra le fuoristrada per ricavare delle
zone di ombra che si rivelarono indispensabili. Sotto questi teloni passammo le
ore più calde della giornata, distesi immobili, dormendo, parlando con i locali
che gradivano molto la “nostra ombra” delle future trattative. Queste
iniziarono nel tardo pomeriggio quando la temperatura era più fresca e si
protrassero fino al tramonto dimostrandosi più lunghe e difficili del previsto.
Dal punto di vista dei “locali”, non sarebbe forse mai più capitata loro una
simile occasione per guadagnare tanto denaro. Occorreva quindi convincere gli
stranieri della pericolosità del posto e della necessità di avere un gran numero
di uomini di scorta. Con Claudio conducevamo le trattative, calcolatrice alla
mano, dovendo fare i conti con il nostro budget a disposizione tutt’altro che
illimitato. Le richieste dei “locali” inizialmente si dimostrarono eccessive:
gli Afar sapevano che noi non avevamo nessun’altra alternativa per trovare
cammelli, guide e scorta per raggiungere il vulcano e giunti fino al loro
villaggio non potevamo che cedere alle loro richieste; noi consapevoli delle
loro strategie rifiutammo le loro richieste e la giornata si concluse con un
niente di fatto. Gli Afar che lasciarono il campo volendo dimostrare di essere
irremovibili per cui le trattative subirono una fase di stallo fino al
pomeriggio del giorno successivo
. Avevamo stabilito il nostro accampamento
alla periferia del piccolo villaggio e montato le tende su banchi di sabbia,
mentre le capanne degli Afar erano invece costruite sopra una grande distesa
lavica; uniche precauzioni che ci ricordò Alì, furono quelle di stare attenti ai
serpenti, molto pericolosi, che abitavano la zona. Al tramonto le nostre tende
ad igloo assomigliavano molto alle burra degli Afar e le immagini dei due
accampamenti erano assai suggestive.

Al calare della notte, sembrava di vedere dei bagliori di luce sopra il
massiccio dell’Erta Ale
, e questo poteva indicare che ci poteva essere il
tanto sperato lago di lava attivo. Questa visione riaccese le nostre speranze e
ci dette la carica per affrontare nuovamente le trattative il giorno seguente.
La notte passò tranquilla; io trovai anche il tempo, allontanatomi di poche
decine di metri dalle tende, di chiamare l’Italia con il telefono satellitare
per informare sull’andamento della spedizione. Al mattino seguente la giornata
si svolse analogamente alla precedente, cioè in riposo sotto i teloni nelle ore
più calde(dalle ore 11 circa della mattina alle 17 del pomeriggio). Alcuni dei
partecipanti alternavano ore di riposo con brevi camminate all’interno del
villaggio giocando con i bambini, fotografando, mentre il nostro medico Luciano
doveva soddisfare continue richieste di intervento da parte degli Afar, curando
ferite molto brutte ad uomini ed animali.

Nel pomeriggio ripresero le trattative: io insistevo nel puntualizzare che,
pur essendo occidentali e quindi “ricchi”, non eravamo nè inglesi nè americani e
le nostre risorse erana più limitate. Chiesi al nostro instancabile interprete,
Taie, di tradurre il concetto. Questo paragone venne ben accolto dai capi che
dopo numerose consultazioni ridimensionarono le loro richieste che risultarono
imprevedibilmente assai più modeste. In brevissimo tempo la lenta monotonia
dell’attesa, venne interrotta dallo spettacolare, rumoroso e velocissimo arrivo
di molti cammelli con i rispettivi conduttori. La situazione si sbloccò così
velocemente da lasciarci tutti quanti sorpresi
e subito ci mobilitammo nel
distribuire i carichi sopra i cammelli. Dovevamo caricare solo lo stretto
necessario per la sopravvivenza (acqua, alimenti, etc) e il materiale della
spedizione scientifica. Entusiasta dello spettacolo che si svolgeva davanti ai
miei occhi riuscii a malapena a salire sul tetto di un fuoristrada per scattare
delle fotografie dall’alto, e documentare la movimentata partenza. Alle 17 circa
del 2 dicembre, salutato Alì che ci avrebbe atteso al villaggio al nostro
ritorno, partì così la nostra carovana composta da 15 partecipanti,
l’interprete, 19 Afar armati di tutto punto (fucili mitragliatori AK47, cioè i
temutissimi Kalashnikov, pistole, bombe a mano e pugnali), e 20 cammelli da
carico, per un totale di 35 persone, mentre i nostri sette autisti e i
due cuochi ci avrebbero attesi al villaggio.

Rimase, al villaggio uno dei 16 partecipanti della spedizione, generando
stupore e preoccupazione di tutto il gruppo: questi pur essendo un viaggiatore
di provata esperienza, forse, per un crollo di nervi derivato dalle continue
dure prove fisiche e mentali a cui eravamo sottoposti decise di attendere al
villaggio, e fù irremovibile. Inoltre, prendendomi in disparte mi disse con uno
sguardo un po’ allucinato <>. Pur sapendo che la frase
era sicuramente dettata in un particolare stato d’animo, confesso che mi fece
pensare molto: sarebbe stato assai facile per la nostra scorta armata prendere
il sopravvento sul gruppo per derubarci e farci sparire in quel deserto
infuocato.

Non sappiamo in realtà quanto fosse veramente necessario avere così tanti
uomini di scorta, ma sicuramente questo era un modo per distribuire il nostro
denaro a tutti gli abitanti dell’area. Ad ognuno di noi era stato assegnato un
cammello con il suo conduttore armato che trasportava un piccolo bagaglio
personale e le due taniche d’acqua da 20 litri contrassegnate con il proprio
nome. In breve tempo la carovana prese forma e in fila indiana uomini e cammelli
incominciarono a montare il dolcissimo pendio lavico che ci separava dal’Erta
Ale.

I nostri due documentaristi intanto giravano le scene dell’avvicinamento
della spedizione al vulcano, scene molto suggestive per il documentario:
paesaggi, tramonto, partecipanti, Afar armati, cammelli; ognuno contribuiva a
rendere uniche le immagini. Anche le fotografie scattate in quei momenti non
renderanno mai completamente l’emozione e la suggestione di tale spettacolo: il
sole si adagiava sul profilo delle montagne che con mille tonalità di rosso,
giallo e arancione si ergevano dolcemente dalla piana di quel deserto di sabbia
e roccia lavica così strano ed irreale; la nostra carovana era bellissima.
Occorreva percorrere circa trenta chilometri in linea d’aria dal villaggio alla
vetta del vulcano, appena 617 m, (non sapendo se avremmo incontrato degli
ostacoli e di quale tipo). Se fossimo riusciti nel nostro intento avremmo, di
fatto, compiuto un’impresa, superando tutte le difficoltà logistiche
raggiungendo via terra la vetta dell’Erta Ale, cosa non possibile a detta di chi
ci era stato con le spedizioni precedenti
. La temperatura a quell’ora serale
era di poco superiore ai 40°C ma nella notte sarebbe scesa di qualche grado
permettendoci di riposare. Secondo gli Afar era importante percorrere quella
sera il maggior numero di chilometri possibile dato che l’indomani avremmo
dovuto affrontare il tratto finale nella parte più calda della giornata.
Avanzammo quindi anche al buio più completo, illuminando i passaggi tra le lave
con l’aiuto delle torce, per giungere dopo alcune ore a una radura sabbiosa dove
ci saremmo accampati. Consumammo frettolosamente una minestra liquida e ci
coricammo direttamente sopra i sacchi a pelo senza montare le tende, poichè
saremmo ripartiti molto presto alle prime luci dell’alba. Ognuno di noi, mentre,
gli Afar recitavano le loro preghiere serali in direzione della Mecca, si scelse
un posto vicino al suo cammello, al suo zaino e alle sue taniche d’acqua. Ben
presto, non facemmo più caso all’odore acre del cammello e a quello più forte
dei suoi escrementi disseminati un po’ per tutto l’accampamento, e fummo tutti
quanti rapiti dall’atmosfera del posto. Ora i bagliori della lava del vulcano
si riflettevano chiaramente sul cielo e non lasciavano dubbi: c’era della lava
all’interno del cratere dell’Erta Ale, il lago di lava esisteva ancora!!
Per
alcuni minuti mi distesi sul mio sacco a guardare l’incredibile cielo stellato
africano, interrotto periodicamente da quei bagliori rossastri, condividendo
intensamente quel modo di vivere che gli Afar hanno mantenuto inalterato nel
tempo. Mi tornarono chiare in mente le parole riportate sul diario di viaggio di
L.M. Nesbitt (l’esploratore italiano che nel 1928, 69 anni prima
di noi, per primo aveva attraversato la Dancalia da sud a nord):

<< Cadde l’oscurità e sostammo nel deserto perché il procedere
diveniva pericoloso. Più fantastico aspetto assunsero i vulcani nella notte:
contro il cielo senza luna i cumuli di fumo rosseggiarono nelle parti inferiori
sopra i crateri e bagliori di fuoco illuminarono a sprazzi i vapori dell’aria.
Intorno nessun segno di vita ….. Ci trovammo nel deserto di Adogura, nel centro
del leggero arco che i rosseggianti vulcani dell’Hertale descrivevano, in quel
paesaggio assolutamente di morte ove l’unico segno di vita erano il fuoco e il
fumo degli ignei monti.>> (dal capitolo XXVIII del libro di L.M. Nesbitt
“La Dancalia Esplorata”, 1930)

Quella notte passata a dormire sotto le stelle di un Africa veramente ancora
“vergine” rimarrà sicuramente uno dei ricordi più profondi ed emozionanti per
ognuno di noi.

Alle quattro del mattino del 3 dicembre, dopo che alcuni Afar avevano
recuperato due cammelli fuggiti nella notte, riprendemmo a salire tra
spettacolari scenari di colate laviche arrampicandoci lentamente a zig zag sul
massiccio vulcanico. A metà mattinata girando intorno ad una grossa colata di
lava appartenente al vulcano Alebbagu raggiungemmo, una piccola insenatura tra
le lave che conteneva delle piccole pozze d’acqua sporca ma utili per abbeverare
i cammelli. Questa che doveva essere una breve sosta per rifornire d’acqua gli
animali, si trasformò in una lunga sosta per il thè, contraddicendo
clamorosamente le raccomandazioni delle nostre guide di evitare a tutti i costi
di marciare nelle ore più calde. Non era possibile opporsi alle decisioni di 19
Afar armati nel loro territorio; era più prudente sottostare a quest’ennesima
imposizione. Ancora una volta la tensione fra il gruppo degli italiani e quello
dei “locali” cresceva ed invece era fondamentale mantenere la calma, visto che
il vulcano era vicino e mostrava chiari segni di attività.

Inoltre, per esplorare il vulcano,non avevamo più i 4\5 giorni disponibili
previsti nel programma originario, perché tutti i contrattempi ci avevano fatto
perdere moltissimo tempo. Ci rimaneva come tempo utile solamente la giornata
successiva, in pratica quella del 4 dicembre, poi avremmo dovuto fare il
percorso inverso fino ad Addis Abeba per cui i margini di sicurezza per i tempi
di rientro erano veramente ridotti. Quella sera credemmo veramente di non
riuscire a compiere l’impresa che ci eravamo proposti alla partenza. La parte
più spettacolare e rischiosa di quest’impresa consisteva nello scendere
all’interno del cratere dove speravamo di ritrovare il lago di lava attivo
segnalato dalle precedenti spedizioni, fino a giungere a una piccola terrazza di
detriti da dove campionare le rocce e le lave, ed effettuare alcune misurazioni.
Per fare questo avevamo ottenuto, grazie ai contatti personali dell’alpinista
Pieroni, come sponsorizzazione materiale alpinistico estremamente specializzato
adatto per i recuperi per le discese verticali.

Ripresa la marcia, alle 16 circa raggiungemmo, senza trovare alcun ostacolo
la vetta dell’Erta Ale. Ero ansiosissimo di affacciarmi sul bordo della grande
caldera; insieme agli altri vulcanologi ed alla eccezionale Odina, l’unica
partecipante donna della spedizione, forzammo l’andatura per percorrere le
ultime poche centinaia di metri dove la pendenza aumenta abbastanza, arrivando
per primi sul bordo esterno. Lo spettacolo era impressionante, dal bordo
riuscivamo ad avere una panoramica del complesso della caldera: potevamo
osservare un enorme hornitos di lava e riuscivamo a distinguere nettamente i due
“pit” (pozzi) craterici, ma non riuscivamo a vedere la lava. Cominciammo allora
a valutare la situazione e le difficoltà, dopodiché ci accampammo poco sotto il
bordo ricavando delle precarie zone di ombra con i nostri teloni; ci preparammo
poi a fare una prima ricognizione all’interno della grande caldera, prima che
sopraggiungesse il tramonto. Un’ora più tardi, il nostro alpinista Paolo era già
in grado di attrezzarci per poter discendere il primo terrazzamento che dal
bordo porta sul fondo della grande caldera. Tutti i partecipanti alla spedizione
erano eccitati all’idea di scendere all’interno, ma il gruppo dei vulcanologi
aveva già deciso che avrebbe dato il “via libera” soltanto dopo essersi
sincerati delle condizioni di sicurezza minime
per permettere l’accesso al
luogo a persone non esperte. Con l’alpinista Paolo Pieroni che ci appoggiava dal
bordo del cratere, con il sole al tramonto e poco tempo a disposizione,
scendemmo agevolmente il primo terrazzamento solamente in quattro: il
sottoscritto, Mauro Rosi, Paolo Papale, Mauro Coltelli.

Sul bordo del cratere il resto della spedizione, Afar compresi, ci osservava
con trepidazione. La luce a questa latitudine scompare velocemente per cui
dovemmo utilizzare le torce per illuminare il cammino. L’idea era quella di
raggiungere il bordo del “pit piccolo” che nel buio mostrava chiaramente un
riverbero di luce provocato dalla lava , per stimare le difficoltà di una
eventuale discesa. Eravamo molto tesi perché ci avventuravamo al buio in un
ambiente vulcanico che non conoscevamo, senza poter ben valutare, come invece
era possibile in condizioni di luce piena, eventuali rischi insiti nelle
strutture vulcaniche. Inoltre sapevamo che l’attività effusiva di quel tipo di
vulcani dava luogo a delle colate molto fluide che raffreddandosi creavano
particolari formazioni solidificate chiamate dai vulcanologi “shellyng
pahoehoe”
(lave phaoehoe a conchiglie)dagli spessori talvolta molto
sottili. Questi spessori, solo apparentemente robusti, potevano cedere sotto il
peso di un uomo, trasformandosi in una trappola pericolosa e tagliente per le
nostre gambe. Occorreva camminare lungo i punti di contatto fra le varie colate
considerate più resistenti delle volte delle stesse. Avanzammo per qualche
decina di minuti con molta prudenza fino a raggiungere il bordo del pit che era
sempre più illuminato dai bagliori. Ci stendemmo addirittura per terra per non
gravare con tutto il peso del corpo sui bordi del pit, e sporgemmo la testa per
vedere quello che accadeva dentro. Fu come una folgorazione: il lago di lava
c’era e ribolliva proprio sotto di noi in un impressionante buco con le pareti
profonde ottanta metri. Era uno spettacolo pauroso e affascinante nello stesso
tempo anche per gente come noi, abituata a vedere e studiare continuamente
l’attività dei vulcani. Rimanemmo una mezz’ora ad osservare lo spettacolo e poi
tornammo indietro entusiasti risalendo il terrazzamento. La notte che ci
apprestavamo a passare, per vari motivi fu una di quelle più frenetiche
dell’intera spedizione. Il vento che si era alzato ci fece tremare dal freddo,
ed ognuno cercò di ripararsi come poteva con i sacchi a pelo, dato che non era
possibile tirare su le tende.

Intanto i pareri sulla possibilità di realizzare la discesa all’interno del
cratere, con così poco tempo a disposizione, erano molto discordi.
Effettivamente i margini di tempo erano pochissimi e senza un’accurata
preparazione, che a detta di alcuni avrebbe richiesto diversi giorni, sarebbe
stato molto rischioso cercare di scendere all’interno sul fondo del pit. Ma la
determinazione del nostro bravo alpinista e la motivazione di Paolo Papale ci
avrebbero consentito il giorno dopo di realizzare con pieno successo la discesa.

Infatti, alle sei del mattino del 4 dicembre, scendemmo il primo
terrazzamento anche con Pieroni, realizzando una rudimentale teleferica,
con corda doppia, per trasferire il materiale alpinistico dal bordo del cratere
sul fondo della grande caldera, 20 metri più in basso. In seguito dovevamo
cercare un punto dove fissare la nostra particolare attrezzatura alpinistica:
questa consisteva in un “Palo Pescante”, in alluminio e titanio corredato
di un sistema di manovelle e carrucole per il recupero manuale che ci permetteva
di avere uno sbalzo di due metri dal bordo del cratere. Questo palo ci avrebbe
permesso una volta ben fissato al suolo di calare e recuperare agevolmente una
persona sul fondo del pozzo craterico. Con un po’ di fortuna, giunti nuovamente
sul bordo del cratere, riuscimmo a fissare molto bene il palo su uno sperone di
roccia. Sotto di noi, il lago di lava che ora riuscivamo ad osservare molto
bene, appariva con la luce del giorno come un grande lago nero interrotto
bruscamente da improvvise esplosioni di bolle di gas che frantumavano la crosta
e portavano in superficie il magma rosso incandescente. I preparativi, per la
discesa erano stati tutti quanti ultimati ed il materiale predisposto; dopo
ampie consultazioni sulle precauzioni di sicurezza da prendere, decidemmo che
il momento per effettuare il tentativo di discesa era giunto
.

A questo punto, prima di iniziare la discesa, permettemmo anche al resto del
gruppo di raggiungerci per non perdersi lo spettacolo del vulcano e dell’impresa
che ci accingevamo a compiere. Anche alcuni tra gli Afar stessi vollero
raggiungerci per vedere da vicino cosa stavamo per fare. Il nostro regista
Maurizio ed il suo operatore Andrea predisponevano per girare la parte finale e
più spettacolare del documentario. Non avevamo molto tempo a disposizione e se
qualche cosa fosse andata storta sarebbe stato molto rischioso. A causa del
pochissimo tempo rimastoci avevamo una sola possibilità di effettuare la
discesa: non sarebbero potuti discendere a turno tutti i vulcanologi, perché
questo programma avrebbe dovuto svolgersi solo avendo a disposizione almeno un
paio di giorni. Decidemmo, quindi che sarebbe discesa una sola persona: Paolo
Papale, leggero ed abile free climbing, al quale erano legate le sorti
dell’impresa e del primato della discesa, mentre gli altri, organizzati
dall’alpinista Paolo Pieroni, avrebbero operato la discesa e il recupero con
l’attrezzatura predisposta. La discesa di Paolo fu un pieno successo; in
comunicazione costante con le nostre ricetrasmittenti ci guidava evitando volta
per volta pericolosi speroni di roccia, giungendo in una mezz’ora sul fondo del
pit. Era veramente minuscolo il nostro Paolo sul fondo di quel cratere. A
questo punto non lo perdevamo mai di vista: Paolo decise di sganciarsi dalla
corda di sicurezza e, dato che a causa di forti correnti convettive i gas
fuoriusciti dal lago erano portati velocemente in superficie e l’aria era
respirabile, non indossò la maschera antigas. Paolo sostò per circa un ora
all’interno del cratere, prelevò qualche campione, scattò numerose fotografie, e
si attaccò nuovamente alle corde. (Foto Paolo sul fondo del cratere) Il recupero
fu altrettanto spettacolare, quanto faticoso e impegnativo. Lentamente,
utilizzando il vericello manuale, cominciai a recuperare Paolo, che metro dopo
metro risaliva la ripida parete. Nella parte finale del recupero venne ad
aiutarmi pure Paolo Pieroni per issarlo sul bordo. Non appena fu nuovamente fra
noi ci abbracciammo tutti quanti felici di essere riusciti nell’impresa.
Si! Nonostante tutte le disavventure, i guai, gli ostacoli vari, il fattore
Africa, le burocrazie africane varie, eravamo riusciti a giungere al vulcano
Erta Ale con una spedizione via terra ed eravamo pure riusciti a calarci
all’interno del pozzo craterico e prendere campioni del lago di lava. Per noi
vulcanologi era proprio un gran successo ! Ma anche tutti gli altri, Pieroni per
primo, gioirono con noi della riuscita. Sul vulcano tutto aveva funzionato, e
anche quella giornata stava per terminare in un tramonto indimenticabile. Pieni
di soddisfazione e di entusiasmo ora potevamo riprendere la via del ritorno.
Radunato tutto il nostro materiale partimmo subito per rientrare al villaggio
Afar. Per raggiungere Kosrawad occorrevano altre due mezze giornate di cammino.
La carovana di persone così diverse tra loro, eppure unite da un’avventura come
la nostra, marciò per diverse ore in silenzio, ognuno di noi assorto in mille
riflessioni e ricordi; le uniche parole sussurrate in queste ore non erano altro
che commenti entusiastici ed increduli su ciò che avevamo vissuto. Dormimmo
nuovamente presso i banchi di sabbia dove ci eravamo fermati all’andata e
rientrammo al villaggio il 5 dicembre.

Al rientro ci aspettava una splendida doccia: i nostri autisti avevano
prelevato dell’acqua dalle pozze degli Afar per farci lavare; praticamente acqua
sporca e fango ma ugualmente meravigliose, come una pioggia divina ci
rinfrescava e ci toglieva in un istante tutte le fatiche e la polvere di dosso.
La giornata successiva trascorse tranquillamente con i preparativi per la
partenza delle fuoristrada, mentre alcuni di noi fotografavano, altri dormivano,
e il nostro medico Luciano faceva gli straordinari: operava senza anestesia e a
cielo aperto (in realtà all’interno di una tenda), con l’assistenza a turno di
noi, un brutto ascesso in un ginocchio del nostro bravo fotografo Michele
Squeri.

Al rientro passando per Asayta, congedammo e salutammo Alì, la nostra guida
Afar, e deviammo verso l’altipiano etiopico invece di rientrare per la strada
fatta all’andata. Ovviamente i paesaggi dell’altipiano differivano notevolmente
da quelli della pianura desertica. Piantagioni di dura, dalla quale si ricava
l’enjera (tipico pane umido etiopico base dei piatti tradizionali) si
estendevano interminabili sull’altipiano. Alcuni tratti, particolarmente ricchi
di piante tropicali e campi di caffè, addirittura mi ricordavano paesaggi del
Costa Rica visitato in un’altra occasione. Degna di nota la fermata al paesino
di Bati dove proprio in quel giorno si svolgeva un coloratissimo e grande
mercato. Rientrammo due giorni dopo ad Addis Abeba, da dove poi ci saremmo
imbarcati per l’Italia. Ci portavamo addosso, sulla pelle e nella mente
un’esperienza indimenticabile, la Dancalia: così dura e ostile quanto bella e
generosa.

Dal diario di viaggio di Luca Lupi (Vulcano Esplorazioni)

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